Cherubino Gambardella

Paolo Marcoaldi

Napoli , 2014

28
Ott
2014
AUTORE
Paolo Marcoaldi
ArchiDiAP intervista Cherubino Gambardella, professore ordinario di progettazione architettonica nella Facoltà di Architettura “Luigi Vanvitelli” della Seconda Università degli Studi di Napoli.

Gambardella, con grande lucidità e sense of humor tutto partenopeo, mette a nudo i limiti della propria architettura, mediterranea fin nelle viscere, lontana dalle immagini nitide di Mies e Piano, ma non da alcuni “pasticcioni” più nordici come Sverre Fehn e Le Corbusier, la sua più grande passione. Del maestro svizzero tuttavia, Gambardella mette in discussione un celebre aforisma, sostenendo che la pianta non è più la generatrice, purtroppo e per fortuna.

TESTO

Professore, Friedrich Hölderlin (Scritti sulla poesia e frammenti), parlando dell’arte in generale, e quindi anche dell’architettura, dice “fantastichiamo di originalità e di autonomia, crediamo di dire cose tanto nuove, ma tutto questo […] è una specie di mite vendetta contro la schiavitù in cui ci siamo trovati verso l'antichità”. È d'accordo con quest‘osservazione?
Non sono particolarmente d'accordo. Noi oggi viviamo un tempo straordinario perché è un tempo senza prospettive, che non impone né una dittatura del passato né una dittatura del futuro. Noi abbiamo la straordinaria opportunità di vivere il presente, un tempo vuoto, impresidiato. Gli architetti, o per lo meno coloro che svolgono mestieri prefigurativi, sono tutti rivolti al futuro e hanno tutti bisogno del passato. Io immagino l'estensione temporale come un immenso piano istoriato, un grande affresco, dove tutto è disponibile senza nessuna differenza. Non bisogna avere un eccessivo rispetto verso il futuro o verso il passato, altrimenti, come dice Hölderlin, divengono delle dittature. Progettare non vuol dire fare il nuovo, ma, come ha detto Renzo Piano in una recente intervista, vuol dire rammendare. Io uso un termine analogo, che è scrivere tra scritture interrotte, cioè imparare non tanto ad aggiungere, perché specialmente il nostro territorio è enormemente saturo, ma avere una grande attenzione a ripararlo, rimetterlo in sesto. Questo non vuol dire usare esclusivamente il restauro, che è una disciplina sin troppo “scientifica”, che nel rispetto religioso per la sequenza temporale priva gli architetti di qualsiasi possibilità inventiva. Noi possiamo prenderci cura dell'oggi attraverso varie modalità operative, il rammendare, il costruire sopra, il suturare, l'interporre, il rimettere in ordine o in disordine, soprattutto per cercare di restituire all'architettura quel ruolo così importante che in questi ultimi tempi ha perduto, il diritto a costruire un nuovo tipo di venustas.
Nell’occidente, per quanto ci sia una crisi, tutti i bisogni minimi sono soddisfatti, le nuove povertà in agguato sono povertà imparagonabili a quelle di paesi in cui l'architettura ha ancora una sua dignità in termini di utilitas, e l'arretratezza tecnologica porta ad occuparsi anche di firmitas, per utilizzare queste terribili e un po’ consunte parole di Vitruvio, che hanno paralizzato l'architettura dandogli quest'aria arcigna e troppo nozionistica. Quindi va bene occuparsi di architettura in senso transitivo, in posti della terra in cui le condizioni di povertà sono drammatiche. In Italia oggi, per quanto viviamo una crisi senza precedenti, che mina le basi della democrazia, siamo comunque in un’epoca in cui i nostri bisogni sono quasi tutti soddisfatti, ad eccezione della venustas, di una bellezza che si riaffacci, o si riaffacci in forme diverse e non nostalgiche.

Quindi lei sostanzialmente concorda con quanto dice Franco Purini, e ancor prima di lui Manfredo Tafuri, che l'architettura non deve occuparsi di questioni sociali, ma deve pensare a costruire begli edifici senza guardarsi troppo intorno?
Io credo che nell'occuparsi di se stessa si occupi anche delle questioni sociali. Mi spiego. Nell'occuparsi di se stessa, nell'occuparsi del presente, nell'affilare le armi che ha a disposizione, stante le condizioni difficili di committenza e di realizzazione, nella capacità che l'architettura ha di incunearsi in anfratti, coste sempre più frastagliate o in percorsi sempre più accidentati, e di esistere in questi percorsi senza mimesi, senza paure o rinunce, svolge un ruolo sociale. Si occupa di se stessa svolgendo un ruolo sociale. Non si occupa di se stessa indagando o interrogandosi continuamente. L'immagazzinare nozioni, riempirsi il cervello di teorie assurde, ci porta a volte a non osservare con attenzione l'inesauribilità delle fonti che abbiamo messo a punto.

Poco fa ha citato Renzo Piano. La sua architettura, confrontata con quella di Renzo Piano, mostra analogie e differenze. Sebbene gli esiti formali possano essere considerati quasi agli antipodi, c'è una similitudine nella cura del dettaglio, del particolare. Orazio Carpenzano sostiene che lei gestisce gioiosamente e con una disinvoltura disarmante tutte le possibili variazioni dell’ornamento. Che cos'è per lei l'ornamento?
Avrei voluto tanto essere un architetto bravo come Renzo Piano. Avrei voluto essere esatto, meno pasticcione, progettare secondo una nitidezza che ammiro in moltissimi architetti che hanno fatto di questa nitidezza un loro manifesto, come Renzo Piano, i fratelli Aires Mateus o Alberto Campo Baeza, e prima di loro Mies van der Rohe, prima ancora Heinrich Tessenow, fino ad arrivare a Schinkel. Avrei voluto tanto l'architettura come rassicurazione perfetta, però non ci sono mai riuscito, in parte per carattere, per propensione, in parte per talento. Infatti se mi metto a fare architettura come Campo Baeza, il risultato finale è come quello di un bambino di due anni, ma senza la sua purezza. Non è certamente il discorso di Picasso, che dice che ci vogliono dieci anni per imparare a disegnare e una vita per imparare a disegnare come un bambino. Alla fine ho cercato di accettare i miei limiti, e ho capito che il mio destino era un altro, probabilmente meno glorioso, però all’interno di questo destino così stranamente inclusivo, c'era lo spazio per una teoria originale, e di cui sono moderatamente orgoglioso. Alla fine apprezzo molto Renzo Piano, però mi piacciono gli alberghi di Morris Lapidus a Miami, mi divertono le scale di vetro di John Portman negli alberghi americani degli anni '80, trovo Venturi un architetto straordinariamente più interessante di Mies, trovo che alcuni “pasticcioni” nordici come Sverre Fehn siano architetti straordinari, penso in particolare al Museo dei Ghiacci, in cui mischia tutto quello che può. Le Corbusier, al vertice delle mie passioni, è il maestro assoluto dell'imperfezione, come le straordinarie sgrammaticature di Borromini. Persino Leon Battista Alberti, l’architetto del “trattato", che nel 1452 non dà alla luce una traduzione del Vitruvio, ma una cosa scritta di pugno, nel momento in cui costruisce il Tempio Malatestiano per Sigismondo Malatesta, un criminale, un boss di Casal di Principe del XV sec., mette in piedi una macchina potentissima, tra incastri con le preesistenze e continui giochi chiaroscurali.
L'ornamento è, alla fine, l'insieme di queste tracce, il registrare tutte queste impressioni e poi man mano scegliere e selezionare quelle su cui puntare. Ad esempio, quando io ho fatto il Palazzo d'oro, ho realizzato delle finte bugne che da vicino sono dei cunei, mentre da lontano sembra un palazzo in cui hanno lasciato aperte delle serrande dorate. Anche lo strano cornicione non è un vezzo postmodernista, ma nasce dal preesistente scheletro in calcestruzzo. In questo caso ho fatto una specie di pensilina finta profonda tre metri, una sorta di grande falda tesa, un grande borsalino a chiusura dell’edificio. Come dice il mio maestro Franco Purini, quando il tema è uno, e l'edificio si avvale di una specie di reductio ad unum, armonioso nella sua complessità e diversità, stai cominciando lentamente ad imbroccare. L'espressività, come dice Orazio Carpenzano, si riduce a questo ornamento, ed è ottenuta con mezzi minimi, perché Fiore di titanio di Frank Gehry è un capolavoro elitario. Oggi non è più possibile fare questi edifici, è più difficile lavorare come nel mio caso con la Torre dello Ziro (opera pubblicata su ArchiDiAP), costruire una scenografia spettacolare con poco più di 100.000 euro.

A mio avviso i sui disegni, come quelli di Beniamino Servino e anche i disegni di Carmelo Baglivo recentemente esposti a Roma, denotano una utopia visionaria delle immagini, debitrice di alcune esperienze italiane della fine degli anni 60, mi vengono in mente gli Archizoom e anche Superstudio. Eppure Le Corbusier, uno tra i più sapienti manipolatori di immagini, dice che la pianta è la vera generatrice dell'architettura. Pensa sia ancora valida questa affermazione?
Baglivo e Servino fanno due ricerche diverse dalla mia. Il loro è un mondo più vicino alla dimensione utopica di Archizoom e Superstudio, in particolar modo Baglivo. La mia dimensione è una dimensione molto più da illustratore. Alla fine degli anni 90, quando tutti si davano da fare sul concept, avevo iniziato a lavorare sul disegno, senza abbandonare mai la tecnica del collage e dello schizzo, sulla scia dei disegni di Purini, che non sono altro che una straordinaria trasposizione in segni di contenuti teorici. La cosa divertente è che con Baglivo e Servino ci siamo ritrovati ad essere esposti al Moma in quest'ultima mostra del disegno e del collage. La pianta non è più la generatrice, purtroppo e per fortuna. La pianta non è più la generatrice perché non è più richiesta, non è più commissionata. La scrittura nelle scritture interrotte fa si che oggi il format planimetrico sia un format assolutamente dato. Tutte le volte che ho lavorato per real estate e committenti per edifici multipiano, ho passato anni ad analizzare noiosissimi studi tipologici. Oggi invece le richieste sono molto più minimali e tutto si riduce ad un lavoro sulla facciata, questi due metri straordinari di profondità che sono lo spessore dell'edificio. Lo spazio inventivo dell'architetto si riduce moltissimo, la bellezza diviene bellezza democratica, fatta per tutti, perché tutti possono permettersi una facciata. Tutti possono permettersi un'utilitaria di lusso, non tutti possono permettersi l'auto di lusso. L’utilitaria di lusso era considerata l'auto dei cafoni, quella dei parvenus che volevano dare la sensazione di essere ricchi senza esserlo. Gli architetti spesso non sopportano i parvenus, io invece li amo molto, perché c’è modo e modo di fare una facciata. Non si può ridurre tutto all'alternanza delle finestrine scomposte, perché quando l'edificio diviene macchina d'ombre o la pelle media il passaggio tra l'interno e l'esterno, c'è una grande opportunità.

Per concludere, quali sono tre opere e tre libri indispensabili per la formazione di un architetto?
Personalmente farei studiare il Tempio di Apollo a Basse, la Casa come me di Adalberto Libera a Capri per Curzio Malaparte e la prima versione, senza l'ampliamento di Gwathmey, del Museo Guggenheim di New York di F.L. Wright. Se posso aggiungere una quarta opera dell'architetto che più amo, nella sostanziale equivalenza delle cose che ha fatto, direi di studiare la Maison Ternisien di Le Corbusier, una piccolissima casa profondamente alterata nel tempo e di cui sono rimaste pochissime immagini originali, un piccolo blocco dalla forma molto strana, ma un capolavoro di semplicità.
Fra i libri sicuramente farei leggere Verso una Architettura di Le Corbusier, poi farei leggere Principi architettonici nell'età dell'umanesimo di Rudolf Wittkower, per ultimo mi piacerebbe far leggere Learning from Las Vegas di Venturi, Scott Brown e Izenour, con tutta le difficoltà interne alla lettura di questo libro. Tre opere molto diverse, che indicano la mia schizofrenia anche in questo approccio.