Marco Scarpinato | AutonomeForme

Fabrizio del Pinto

Roma , 2013

28
Ott
2014
AUTORE
Fabrizio Del Pinto
ArchiDiAP intervista Marco Scarpinato, fondatore e titolare dello studio AutonomeForme.

AutonomeForme | Architects and Landscape Designers è un team che affronta progetti alla scala architettonica e di paesaggio ed ha come obiettivo la definizione di nuove strategie urbane che connettono le caratteristiche del sito, il programma e le richieste degli abitanti.
AutonomeForme lavora in rete e sviluppa numerosi progetti basati sulla collaborazione interdisciplinare. Nel corso della sua attività, lo studio ha collaborato con molte figure di spicco dell'architettura internazionale quali Kengo Kuma, Grafton Architects, Mecanoo, Maurice Nio e altri.

Nel 2011 la collaborazione con Herman Hertzberger, avviata nel 2005 in occasione del concorso "Tre nuove scuole a Roma", ha prodotto un'opera di alto valore sotto il profilo metodologico e compositivo: il Complesso scolastico Raffaello a Roma.

TESTO

Cosa l’ha spinta a diventare architetto?
Quindici anni fa, quando ho cominciato, la risposta sarebbe stata molto più semplice ma col tempo le ragioni si moltiplicano. Ho cominciato a studiare architettura perché mio padre ne è appassionato, e, anche se faceva l’avvocato, in casa circolavano molte riviste di architettura, da Casabella a Domus, e quindi credo che mi abbia molto influenzato questo interesse familiare verso lo spazio e l’architettura. Inoltre ho da sempre una grande passione per il disegno e per la pittura. Il disegno è sacro, lo schizzo a mano libera, con matita, penna o pastelli a cera, è il principale strumento che utilizzo per indagare lo spazio, attraverso un processo che mi auguro porti sempre alla realizzazione degli spazi che immagino.

Ci può raccontare brevemente in che modo si è creato lo studio AutonomeForme, quali sono gli elementi fondativi della vostra ricerca e quelli generativi dei vostri progetti?
Lo studio è stato fondato ad Amsterdam nel 1993, col nome AutForm ed era uno studio multidisciplinare. Nel 1998 l’ho rifondato con dei colleghi a Palermo, poiché sentivo l’esigenza di lasciare i Paesi Bassi per provare un’esperienza lavorativa in Italia. Abbiamo così formato una sorta di collettivo con il quale volevamo dare un taglio differente al modo di incidere nel corpo vivo della città, cercavamo un approccio che fosse autonomo da alcune modalità con cui, in quel momento, si esercitava la professione di architetto. Inoltre ero legato ai percorsi dell’arte concettuale di matrice anglosassone, il concetto di autonomia era molto diffuso e ne ero affascinato. Credevamo -e crediamo ancora- che collaborare sia l’unico modo, in Italia, per trovare nell’architettura contemporanea un modus operandi che ci faccia stare nel mondo ovviamente contaminando le processualità acquisite con le caratteristiche di uno studio orgoglioso di operare al sud dell’Europa e al centro del Mediterraneo.

Presentando il Suo Team, all’interno del profilo sul sito internet www.autform.it, Lei afferma di avere come obiettivo la definizione di nuove strategie urbane. Ci spiega cosa intende?
Questo è uno dei punti cruciali in cui AutonomeForme s’identifica. Nelle città italiane c’è un grande bisogno di nuove centralità, vale a dire di condensatori nei quali il cittadino possa ritrovare la qualità urbana e sentirsi parte di una comunità. Molto banalmente: uscendo dal mio studio, il bar vicino ha due semplicissime sedie e un tavolo all’esterno, c’è il grande Ficus magnolioides di fronte a noi, dietro la vista del porto vecchio, la Cala di Palermo... quello è un luogo straordinario che crea centralità e, per questo, tutto il quartiere s’incontra in quel punto, che, pur essendo soltanto un allargamento molto limitato del marciapiede, è un luogo urbano di grande qualità.
La nostra ambizione è di riuscire, col nostro lavoro, a ricreare quella qualità urbana che rappresenta una delle principali caratteristiche delle città siciliane. Cerchiamo di trasferire questo tipo di qualità che non si ritrova in altre architetture che, pur essendo scintillanti e di qualità estetica, molto spesso non riescono a creare urbanità. Noi abbiamo questa pretesa: creare urbanità.

Nell’era della globalizzazione, Lei crede nel valore simbolico ed educativo dell’architettura come arte sociale collettiva? Qual è secondo Lei il ruolo di un architetto?
Credo che adesso, più che in passato, l’architetto debba avere un ruolo sociale e politico. Io provengo da una realtà complessa come quella siciliana. Una realtà in cui il ruolo politico del nostro essere architetti è un’azione quotidiana, l’azione politica è nel segno che tracciamo, non a caso legato al ruolo urbano che noi attribuiamo al nostro fare architettura.

Ci può parlare dei programmi di ricerca AVVISTAMENTI?
É un programma molto ambizioso che abbiamo intrapreso tanti anni fa, perché avevamo necessità di confrontarci con altro. Io provenivo dall’esperienza olandese, avevo avuto modo di frequentare qualche master class al Berlage Institute, e avevo avuto modo di ascoltare Rem Koolhaas, Steven Holl e altri, tra cui Herman Hertzberger che ho frequentato per la prima volta proprio in quell’occasione. Allora mi sono detto: perché non far venire da noi, nel Sud Italia, architetti noti e meno noti che abbiano espresso un grande valore nella ricerca, e, con loro, confrontarci sulle nostre difficoltà operative e su temi progettuali. Prima siamo partiti con dei workshop aperti, poi -man mano- abbiamo sempre più raffinato il programma tanto da invitare, ad esempio, le Grafton Architetcts con cui abbiamo poi lavorato, e tanti altri, perché credevamo che attraverso il lavoro, nel confronto operativo, potesse esserci quello scarto qualitativo che ritenevamo mancasse alla nostra formazione di architetti.

Quali sono i confini ontologici della professione? È importante un certo margine di contaminazione? In che modo l’architettura si predispone ad un qualsiasi contributo interdisciplinare? Cosa significa partecipazione?
Parto dall’ultima: per noi l’importanza della “partecipazione” è assoluta e allo studio se ne occupa in particolar modo l’architetto Lucia Pierro. Crediamo che la partecipazione sia un contenuto pieno, collegato alla volontà di fare un’architettura urbana. Poi, come le ho anticipato, credendo nel confronto, crediamo nella forza dell’ibridazione. Una delle qualità che riteniamo caratteristiche del nostro essere siciliani è proprio la capacità di confrontarci con altre culture. Il concetto d’ibridazione è l’essenza stessa dell’architettura, noi crediamo in questa capacità costante di confronto, di acquisizione e deformazione delle culture.

Riferimenti culturali: chi o cosa (movimenti, avanguardie e stili) ha influenzato la sua architettura?
Mi sento molto legato alla scuola triennale di specializzazione post-lauream in Architettura del Paesaggio, una scuola che non esiste più e che ha fortemente modificato il mio punto di vista. Sono laureato in architettura e sono profondamente legato al mio mestiere di architetto, però questa sensibilità paesaggistica ha modificato il mio modo di operare molto più dei riferimenti a qualcuno. Quest’aspetto è spesso centrale nel nostro approccio progettuale e non è un caso che, per noi, la costruzione dell’urbanità passi dalla capacità di lavorare con il contesto del paesaggio. Sembra un paradosso, un ossimoro rispetto all’autonomia: noi siamo autonomi da alcuni preconcetti, ma assolutamente dipendenti dal paesaggio.

Possiamo parlare di una reale difficoltà nel fare architettura, oggi, in Italia? Quali compromessi deve accettare un architetto per potersi affermare, specialmente al Sud?
Credo che sia sotto gli occhi di tutti una difficoltà imputabile alla crisi in atto, ma io penso che la vera difficoltà stia nell’aver creato una barriera di scontro tra modus operandi differenti, tra il mondo digitale da un lato e chi invece era molto più legato alla cosiddetta Accademia Italiana dall’altro. Adesso c’è una sorta di grande tregua, forse questo momento di crisi sta addirittura riavvicinando posizioni che prima sembravano antitetiche e mi pare vi sia una volontà comune di riposizionare l’architettura italiana all’interno di un dibattito più ampio. La nostra strategia da isolani è quella del confronto che ci permette di acquisire competenze diverse da quelle acquisite nei corsi accademici: quindi noi abbiamo già individuato la nostra strategia di sopravvivenza professionale... chiamiamola in questi termini.

Cosa manca al nostro Paese per essere competitivo nel panorama internazionale, e quali sono invece i suoi potenziali inespressi?
Credo che manchi la capacità di confrontarsi. Il fascino e la qualità dell’esperienza professionale che ho acquisito in questi anni nel confrontarmi con Hertzberger, Mecanoo Architecten, Grafton Architects e con altri, sta in questa curiosità e anche in questa capacità di farsi assorbire totalmente da esperienze straniere. Ho lavorato con Henning Larsen, recentemente scomparso, abbiamo sviluppato diversi concorsi in Italia, scoprendo che la luce era un tema di lavoro comune. Se capiamo che ci sono temi che vanno oltre le appartenenze identitarie, probabilmente possiamo anche superare le nostre crisi professionali locali.

Lei e l’architetto Lucia Pierro, sua collaboratrice, avete partecipato con un’intervista all’iniziativa Antimafia Special. In che modo le mafie e la speculazione mortificano il territorio italiano? Cosa significa “rispetto”?
Mi fa piacere che me lo chieda. Sappiamo molto bene le difficoltà che affliggono chiunque si occupi di architettura in Italia e c’è dispiaciuto essere stati gli unici architetti ad aver accettato questa sfida a Palermo, come se il problema non esistesse e come se, senza voler generalizzare, molti successi professionali al Sud non derivino da una certa influenza. Abbiamo voluto dare un segnale: abbiamo lavorato in tutta Italia e non solo, se alcune modalità di lavoro non ci piacciono, non siamo necessariamente vincolati a fermarci in un contesto, possiamo confrontarci anche con altri ambienti, portando altrove il nostro bagaglio di esperienze culturali.
Sulla parola “rispetto” le racconto un piccolo aneddoto: quando vivevo nei Paesi Bassi, usavo spesso questa parola. Allora i miei amici olandesi mi chiedevano: «Marco, ma perché dici sempre “rispetto”? Se lo dici è perché vivi in una realtà che non dà rispetto». Effettivamente nei Paesi Bassi questa parola non si usa, perché il rispetto dell’altro si mostra nelle azioni quotidiane e dunque non c’è bisogno di dirlo.
Per quanto riguarda il contrasto alle mafie, noto con piacere che c’è un grande movimento culturale che, con il proprio operato, contrasta le mafie, dal mio punto di vista, la realtà al Sud sta cambiando in meglio.

Lei è un paesaggista: in che modo si declina, oggi, il confronto con l’identità dei luoghi? Crede sia determinante ai fini di una progettazione attenta e orientata alle esigenze della comunità a cui si rivolge?
Reputo che, in questo momento, il paesaggio abbia un ruolo fondamentale nell’architettura europea. Mi ricollego a una domanda precedente: credo che il paesaggio sia la vera rivoluzione culturale con cui l’architetto deve confrontarsi oggi.
Per me non esistono paesaggi belli o brutti, smettiamola con questa categorizzazione: c’è il paesaggio, punto. Io dico sempre architetture adatte e non adattate. Questo significa che alla base degli strumenti, o come dice Herman [Hertzberger, ndr] degli ingredienti, che noi utilizziamo all’interno del progetto, il paesaggio è centrale.

Chi è il Suo interlocutore ideale?
Io faccio molta attività pubblica dunque per me la società è l’interlocutore ideale, io rispondo alla società anche quando lavoro con commesse private.

Per quanto riguarda il rapporto con l’Olanda, a cosa è dovuto? Come nasce la collaborazione con Herman Hertzberger?
La collaborazione con Herman ha un antecedente: durante gli studi universitari sono entrato in contatto con Aldo Van Eyck, il grandissimo architetto olandese. Ero molto interessato all’architettura olandese in generale, a quest’aspetto sociale, che mi sembrava molto importante da affrontare come architetto. A margine di una sua lezione a Palermo mi sono fermato a parlare con lui esponendogli quella che era un po’ la mia idea di architettura, e lui mi ha suggerito di incontrare Theo Bosh e Herman Hertzberger. Era il mio primo anno di facoltà e da lì ho iniziato a studiare l’architettura olandese. Dunque Van Eyck è stato il San Pietro che mi ha aperto le porte per comprendere meglio la qualità dell’architettura olandese.

Hertzberger, nel corso della sua carriera, ha realizzato numerose scuole ed una in particolare porta il nome di Maria Montessori. Si sente legato all’insegnamento della grande pedagogista? In che modo la sua eredità ha influenzato le sue scelte progettuali?
Io non ho frequentato una scuola montessoriana perché, dove abitavo da bambino, non ne esistevano, ma ho subito un’influenza studiando dai libri di mia madre, che aveva insegnato in una scuola montessoriana e cercava di deformare l’insegnamento canonico della scuola elementare che frequentavo.
Ho una figlia che vive in Olanda e con molta frustrazione ho, a mia volta, vissuto l’impossibilità di iscrivere mia figlia in una scuola montessoriana, perché c’era una lunga lista d’attesa. Volevo, in qualche modo, soddisfare le mie impossibilità da ragazzino iscrivendo mia figlia in una scuola montessoriana, tra l’altro un edificio di Herman, ma non è stato possibile perché ad Amsterdam queste scuole hanno richieste superiori alle disponibilità di posti.

A proposito di progetti, mi riferisco al Complesso Scolastico Raffaello: quali sono i requisiti che Lei reputa fondamentali? Quali spazi sono attuali e utili per favorire l’istruzione? Di cosa hanno bisogno i bambini in una scuola?
Questa è una domanda molto complessa e spero di poter rispondere sinteticamente. Innanzitutto una premessa: quando è uscito il bando di concorso mia figlia aveva poco più di un anno e io volevo assolutamente che in Italia si sperimentasse il modello educativo olandese.
Sin dall’inizio con Herman sapevamo che non si poteva banalmente trapiantare un modello culturale in un’altra realtà, sapevamo che, in modo particolare a Roma, alcune libertà interpretative della scuola olandese dovevano essere deformate. Studiando le normative abbiamo avuto un impatto molto duro e alcune delle qualità che volevamo includere nella nostra progettazione sono state deformate nell’applicazione delle normative di riferimento, normative che andrebbero profondamente ripensate.
Le racconto un episodio: dopo la vittoria del concorso, durante una conferenza di servizi in fase di progetto definitivo, il medico che doveva darci il suo parere sulla scuola ci ha aspramente contestato la mancanza di separazione tra la mensa e l’auditorium. Noi volevamo che gli spazi collettivi fossero il più possibile aperti ed esprimessero un’idea di continuità con gli spazi all’aperto circostanti e con tutto il quartiere. Bene, quest’ufficiale sanitario, in un crescendo di drammatizzazione, estrae dalla sua cartellina di cuoio un unico foglio e lo lancia per aria... era quasi la scena di un film di Nanni Moretti. Questo foglio comincia a ondeggiare su questo grande tavolo intorno al quale sedevano venti persone cadendo fortuitamente tra me e Herman. Sul foglio c’erano le sue prescrizioni: ci imponeva alcune limitazioni perché si atteneva rigidamente alla normativa, e questo per noi è stato abbastanza scioccante perché erano tutti d’accordo nel voler provare a dare dei segnali d’innovazione. Questa innovazione siamo comunque riusciti a ottenerla con delle soluzioni architettoniche, però scontrarci con un atteggiamento rigido e non collaborativo è stato abbastanza duro anche perché avevamo lavorato lungamente e con grande approfondimento su questo progetto e poi tutto si era risolto in un foglio di carta che volava per aria in questa grande stanza dell’assessorato Edilizia Scolastica del Comune di Roma.
E poi c’é un altro aspetto: noi non volevamo il muro di recinzione. Volevamo creare una nuova centralità urbana, quindi abbiamo chiesto in mille modi di non realizzare la recinzione così che i cittadini potessero entrare nel giardino e usufruire di alcune attrezzature che avevamo pensato per la scuola e per il quartiere. È stato impossibile e, dal nostro punto di vista, è stato abbastanza frustrante perché c’è stata un’impossibilità derivante dalla normativa. Molto spesso ci si trincera dietro la normativa per giustificare mancanze progettuali, ma qui è stato esattamente l’opposto, abbiamo tentato in tutti i modi di innovare in qualche modo quella che è la tradizione dell’architettura scolastica italiana.
Poi, abbiamo eliminato totalmente il concetto di corridoio, e questa è la nostra grande conquista. Alcuni spazi, soprattutto nella scuola media, li abbiamo intesi come spazi del confronto. Alle medie i ragazzi sono più grandi, vogliono conoscersi, confrontarsi, e quindi c’è questa strada interna che è pensata come un luogo per l’incontro ed ha un collegamento diretto col paesaggio romano. Il confronto di esperienze tra i ragazzi è fondamentale, c’è quindi una dimensione legata alla socialità degli spazi scolastici che abbiamo curato in maniera quasi ossessiva. La scalinata esterna, per esempio, è un vero e proprio teatro all’aperto e ci siamo ispirati alle città greche della tradizione siciliana, come Morgantina. Le grandi corti nella scuola elementare sembrano la kasbah di Tunisi, dove tutti si possono affacciare. Come dicevo prima, siamo partiti dal paesaggio e lo abbiamo fatto diventare una matrice del progetto. Gli studenti, ogni tanto, devono sollevare gli occhi, guardare le colline, i pini marittimi che segnano l’identità del paesaggio romano, distrarsi, fare le loro poesie, vagare con lo sguardo e accorgersi del mondo che c’è fuori dall’aula...

Come valuta questa esperienza romana?
Molto positiva: ho trovato degli straordinari funzionari pubblici (al di là del soggetto precedentemente descritto!), il Comune di Roma ci ha seguito con grande decisione ed efficacia, ho trovato molta competenza e capacità. Ovviamente erano tutti consapevoli dell’eccezionalità di questo progetto e, per questo, ci hanno seguito con molto affetto. Questa scuola si è resa possibile anche grazie all’impegno dei funzionari pubblici.
Con Herman abbiamo lungamente studiato, cercando di carpire qualche segreto che la città di Roma potesse trasmetterci e l’abbiamo anche in qualche modo inserito dentro la nostra scuola. Ma possiamo anche dire che siamo più meridionali di Roma, quindi c’è l’urbanità dell’architettura greca che esalta e contamina quella romana… credo sia stato un connubio molto felice. Herman recentemente, al Politecnico di Milano, ha detto che lavorare a Roma è stata un’esperienza esaltante. Questa collaborazione tra Nord e Sud estremo ha trovato un punto di connessione in questo progetto, a Roma questo è possibile forse più che in altre città.

Palermo e Roma, cosa accomuna queste due città? Trova più analogie o differenze? Cosa significa lavorare a Palermo?
Sono due bellissime città con differenze importanti ma anche con molti punti di contatto.
Lavorare a Palermo significa esprimere un grande impegno che è quasi un’azione politica. Qui ogni cosa richiede un grandissimo sforzo. Anche farsi riconoscere è molto complicato poiché mancano alcuni strumenti di diffusione e siamo dunque costretti a essere succubi di critici, di situazioni non sempre cristalline, che, per varie ragioni promuovono, un po’ più qualcuno che un altro... ma, in fondo, credo che questo problema riguardi un po’ tutta l’Italia.
Comunque a Palermo occorre un impegno politico molto più forte che, spesso, è anche superiore al segno sulla carta. L’abitudine a confrontarci con la complessità ci ha aiutato molto nel lavorare a Roma e ci ha permesso di realizzare il nostro edificio. Posso garantire che non era scontato, infatti, le altre scuole hanno avuto maggiori ritardi, noi invece l’abbiamo inaugurata. Questo è un nostro punto di orgoglio, perché, da meridionali, siamo riusciti a essere molto più umili, a capire le esigenze contestuali e, senza venire a patti con niente, siamo riusciti a dare delle risposte operative veloci.

Tra i nostri referenti ci sono, naturalmente, gli studenti delle Facoltà di Architettura. Cosa sente di poter consigliare loro nell’ambito del proprio percorso di formazione e successivamente in quello professionale?
Vorrei innanzitutto spezzare una lancia in favore dei docenti italiani, non sono i peggiori come molti pensano e come -devo ammettere- pensavo anch’io quando ero studente.
Poi c’è una cosa che io amo della cultura italiana e che mi ha aiutato sempre e che è diventata anche una moneta di scambio: lo studio della storia. Si tratta di un’attenzione che ci rende oggettivamente unici nel panorama dell’architettura mondiale (mediamente, ora sto generalizzando). Forse l’unico difetto sta nel non aprirsi coscientemente anche ad altre storie dell’architettura, mi riferisco -ad esempio- alla storia dell’architettura indiana, cinese, islamica. Questo studio ci rende molto solidi. Credo -e lo dimostrano tutti gli studenti italiani che arricchiscono gli studi in giro per il mondo- che, se si unisce la capacità di lavorare sulla memoria con la capacità di innovarla e ibridarla con altro, sia possibile fare alcuni passaggi molto più rapidamente. Allora io consiglierei di credere di più negli studi che si fanno perché in quel momento è giusto farli. E poi occorre non aver paura di confrontarsi, occorre, al contrario, che il confronto diventi un modus operandi. Il confronto e la collaborazione sono per noi uno strumento di conoscenza straordinario, molto spesso si scoprono molti più punti di contatto che di divergenza.

Qual è il futuro dell’architettura? E quello dell’Italia?
Il futuro è credere in se stessi, senza aver paura dei cambiamenti. Gli architetti trasformano e quindi non possono avere paura del futuro, dovunque esso sia, in Italia in maniera particolare.
E pocanzi le parlavo della storia… allo studio usiamo da sempre gli strumenti digitali, ma questo non ci fa dimenticare che abbiamo una grande cultura dietro. Credo che questo connubio sia la nostra carta vincente, il nostro futuro é quello di essere un ponte tra la nostra storia e il futuro. Recentemente sono stato nella Medina di Sfax e, passeggiando con degli architetti del luogo, mi sono reso conto di alcune tracce del periodo della dominazione italiana che nessuno di loro aveva mai notato, quindi per questo lavoro siamo partiti da lì, da questa ibridazione.
Spesso mi chiedo perché adesso abbiamo paura dell’ibridazione... infondo anche quando apriamo le riviste ci confrontiamo e deformiamo il nostro sapere attraverso altre culture che vorremmo imitare.

Vuole fare qualche considerazione personale a conclusione dell’intervista?
Il vostro ruolo è fondamentale, poc'anzi dicevo che abbiamo bisogno di luoghi di confronto, di critica... vi auguro di andare aldilà dei linguaggi e di aprirvi quanto più possibile al confronto anche con esperienze che possono essere o apparire più lontane dalla prassi a cui ci si sente più vicini. Questo lo suggerisco anche ai colleghi più giovani, occorre non aver paura.