Le culture extra-europee a Parigi
Percorrendo il lungofiume Branly (in francese Quai Branly), a piedi, in velò o in auto, la percezione del tradizionale rapporto esistente fra la strada e l’edificio progettato da Nouvel si annulla. Il corpo di fabbrica invece di allinearsi lungo i fronti stradali si ritira verso il centro del lotto di pertinenza per lasciare posto ad un giardino disegnato dal paesaggista Gilles Clement. Il museo “Quai Branly” o Museo delle Arti e Civiltà d’Africa, d’Asia, d’Oceania e delle Americhe è uno dei “grands projects” realizzati a Parigi a seguito del concorso internazionale del 1999 promosso dall’amministrazione Chirac. Il terreno su cui sorge si trova nel VII° arrondissement, nell’area un tempo occupata dal ministero del Commercio Estero, a poca distanza dalla Tour Eiffel, ed è affacciato lungo la Senna, di fronte al Palais de Tokyo e al Musee d’Art Moderne de la Ville de Paris.
Lo spazio-giardino
L’edificio del museo ospita un suggestivo muro-giardino dissimulato dietro un filare di platani e separato dall’importante accesso pedonale della passerella; esso si presenta immerso e quasi sospeso in uno spazio verde apparentemente selvaggio, reso artificiale solo dalla barriera di vetro. Dietro questa si scorgono venticinque scatole dipinte con colori vivaci e contrastanti, i cui volumi in leggero aggetto movimentano e modulano il fronte. Viene così tematizzata ed enfatizzata la stretta e complessa relazione fra natura e cultura, oggetto stesso del museo. L’inusuale giardino raccoglie vegetazioni indisciplinate e di origine lontana ed è segnato da sentieri sinuosi e non rettilinei: spesso infatti si biforcano favorendo i rallentamenti e i detour rispetto all’accesso, rallentando l’ingresso nel museo. Si dà quasi il tempo al visitatore di passare da una dimensione urbana a quella naturale, disponendolo a nuove esperienze.
L’esposizione
Percorrendo la lunga rampa sinuosa, come in un sentiero naturale, si accede nell’atrio di ingresso, in penombra, al pian terreno, dalla forma ellittica, che ospita lo spazio per le esposizioni temporanee. Una spessa paratia in cemento armato protegge invece il seminterrato in cui si dispongono un auditorium e i magazzini. Una statua Dogon, come una Nike dal braccio alzato, accoglie il visitatore al primo piano: 7000 mq riservati alla collezione permanente sono racchiusi in un’unica galleria a doppia altezza, sospesa sul giardino tramite una struttura metallica. Le opere suddivise in grandi zone continentali sono individuate per colori, mentre il percorso di attraversamento “fluido” insiste su gli incroci fra le civiltà e le culture.
In questo spazio aperto non ci sono scale o vere e proprie sale espositive: quando è possibile gli oggetti, soprattutto i più grandi, sono esposti nello spazio senza nessun contenitore mentre le tradizionali vetrine sono re-interpretate da trecento pareti in vetro. L’intenzione di Nouvel mira alla sovversione dei tradizionali rapporti che intercorrono fra soggetto-oggetto e fra soggetto-spazio. Le venticinque scatole, che all’esterno sincopavano la facciata su strada, all’interno ospitano gli approfondimenti relativi all’identità di un popolo o di una cultura riunendovi opere della stessa origine. Sempre all’interno la luce viene filtrata e l’illuminazione è puntuale, modulata caso per caso sulle singole opere.
L’edificio viene così interpretato in una visione che trascende il reale, sia nello spazio museale con l’imponente sistema di sofisticati dispositivi di informazione, sia nel giardino con l’intervento significativo di Clement. Uno spazio alla continua ricerca di una narrazione, nella quale gli elementi-oggetti percettivi creano un’immagine che è tesa volutamente all’illusione.